Il reato di frode nell’esercizio dell’attività commerciale consiste nella consegna di una cosa mobile per un’altra, ovvero di una cosa mobile per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o pattuita. Ciò che dichiariamo sull’etichetta del prodotto costituisce la carta d’identità del prodotto stesso e l’eventuale difformità intenzionale dell’informazione fornita rispetto a caratteristiche rilevanti del prodotto può costare caro.
Indice articolo
- Il delitto di frode nell’esercizio del commercio
- La frode in commercio nell’impresa alimentare: manifestazioni del reato e casistica più ricorrente
- Conseguenze penali e rapporto con altri reati
- L’informazione alimentare: l’importanza di un’etichetta veritiera e non solo
1. Il delitto di frode nell’esercizio del commercio
Uno dei fenomeni che preoccupa maggiormente l’impresa alimentare è di sicuro “incappare” in una frode del prodotto che l’azienda stessa produca, trasformi e/o commercializzi.
Abbiamo già chiarito cosa debba intendersi per “frode” qui .
Oggi analizziamo la fattispecie di reato a capo della famiglia delle cosiddette “frodi commerciali”, che è il delitto di frode nell’esercizio del commercio.
Il reato di frode in commercio punisce, qualora il fatto non costituisca un più grave delitto, “chiunque, nell’esercizio di un’attività commerciale, ovvero in uno spaccio aperto al pubblico, consegna all’acquirente una cosa mobile per un’altra, ovvero una cosa mobile, per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o pattuita”.
Questo è quanto recita l’art. 515 del Codice penale, che vieta, dunque, due condotte diverse:
1. consegnare una cosa mobile (ad esempio, un prodotto alimentare) in luogo di un’altra (si parla, tecnicamente, di consegna di aliud pro alio), ovvero
2. consegnare una cosa mobile che, con riferimento a talune caratteristiche, è diversa da quella dichiarata (per esempio, sull’etichetta) o pattuita (con l’acquirente). Quanto alle caratteristiche rilevanti, la norma fa espresso riferimento all’origine, alla provenienza, alla quantità e alla qualità del bene.
Si tratta, all’evidenza, di concetti molto ampi, i cui contenuti concreti vanno ricercati altrove, all’interno dell’ordinamento giuridico non solo nazionale.
2. Genuinità nLa frode in commercio nell’impresa alimentare: manifestazioni del reato e casistica più ricorrente
Per il settore alimentare, ad esempio, sono i provvedimenti normativi emanati dalle istituzioni europee a costituire per l’OSA il primo punto di riferimento: i concetti di “origine” e “provenienza”, a titolo esemplificativo, sono definiti nel Regolamento (UE) n. 1169/2011 sull’informazione alimentare, che stabilisce che il “luogo di provenienza” è “qualunque luogo indicato come quello da cui proviene l’alimento”, il quale, però, non corrisponde al “Paese d’origine”, che è il paese ove il bene è interamente ottenuto ovvero, nel caso di concorso di due o più Paesi nella sua realizzazione, il luogo in cui è avvenuta l’ultima trasformazione sostanziale ed economicamente giustificata (vedi Regolamento UE n. 952/2013, cosiddetto Codice doganale europeo, sull’origine non preferenziale delle merci).
Attenzione, perché “il nome, la ragione sociale o l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare apposto sull’etichetta non costituisce un’indicazione del Paese di origine o del luogo di provenienza del prodotto alimentare” (art. 2, comma 2, lett. g, Reg. UE 1169/2011).
Dai contorni più incerti appare il concetto espresso col termine di “qualità” del prodotto.
La qualità di un alimento è un insieme di più fattori, oggettivi e soggettivi, legati al prodotto e ritenuti caratterizzanti dello stesso (sicurezza igienico-sanitaria compresa); “qualità” è il fascio attraverso cui singole caratteristiche del prodotto sono tenute insieme e concorrono a soddisfare le aspettative e le esigenze dell’acquirente.
Per il reato di frode in commercio è sufficiente l’esistenza di una singola diversità qualitativa.
Inoltre, è configurabile il tentativo del reato, presente quando, in assenza della materiale consegna del bene al compratore (qualora manchi, ad esempio, la conclusione di una vendita), l’OSA detenga per la successiva cessione o somministrazione, presso i locali della propria attività (magazzini di merce inclusi), prodotti diversi per origine, provenienza, qualità o quantità, diversi da quanto dichiarato.
Un esempio tipico di tentativo di frode in commercio per bar e ristoranti consiste, difatti, nella disponibilità di alimenti surgelati, non indicati come tali nel menù o negli espositori nei quali gli stessi siano esposti a disposizione della clientela.
Determinati tipi di alimenti risultano, nella casistica, oggetto di frodi commerciali più di altri: prodotti convenzionali “spacciati” in etichetta come biologici; olio proveniente da una miscela di oli vegetali (o da olio di sansa) dichiarato come olio extravergine di oliva; alimenti di origine estera indicati come di origine italiana; confezioni di riso di qualità diversa (di norma, inferiore) a quella dichiarata in etichetta, ecc. .
Non occorre -come invece richiesto per il diverso reato di truffa– compiere particolari “sotterfugi” o accorgimenti per ingannare il cliente: è sufficiente descrivere il prodotto in termini non veritieri, o omettere l’indicazione veritiera essenziale, con la consapevolezza (e, quindi, volontà) di offrire un prodotto diverso da come lo presentiamo (sotto il profilo dell’elemento psicologico del reato, si parla di dolo cosiddetto generico).
Ed è del tutto irrilevante che il compratore possa facilmente, applicando la normale attenzione e diligenza, rendersi conto della difformità tra merce dichiarata e consegnata (o offerta, in caso di tentativo), trattandosi di reato posto a tutela della lealtà degli scambi commerciali.
Si può pure concorrere nella frode in commercio, anche tentata, commessa da altri, laddove si sia al corrente dell’attività fraudolenta posta in essere da un dato operatore (ad esempio, un fornitore) sul prodotto e, ciononostante, si agevoli la vendita o l’offerta al pubblico del prodotto contraffatto (art. 110 c.p.).
3. Le conseguenze penali e la responsabilità 231 dell’ente
L’articolo 515 c.p. è un reato procedibile d’ufficio, non essendo richiesta ai fini della perseguibilità la proposizione di una denuncia-querela da parte del soggetto che assume di esser stato “frodato” (il compratore), la pena prevista è quella della reclusione fino a due anni o della multa fino a 2.065,00 euro per i soggetti autori del fatto reato.
La medesima responsabilità penale, in egual misura salvo casi particolari, è riservata a tutti le eventuali persone fisiche che abbiano contribuito alla realizzazione del reato altrui.
In caso di delitto “solo” tentato, la pena stabilita per il reato consumato è ridotta da un terzo a due terzi (art. 56 c.p.).
Dal 2009 il reato di frode in commercio, insieme agli altri delitti contro l’industria e il commercio di cui all’art. 25-bis.1 Decreto legislativo 231/2001, è inserito tra i reati da cui dipende la responsabilità amministrativa dell’ente, che, in caso di plurimi OSA intervenuti attivamente e consapevolmente lungo la filiera del prodotto contraffatto, può colpire tutte le aziende che abbiano materialmente e/o moralmente contribuito a perpetrare la frode.
4. L’informazione alimentare: l’importanza di un’etichetta veritiera e non solo
Ancorando la “diversità” del bene a quanto dichiarato (o pattuito col compratore), l’art. 515 c.p. fa passare l’attività fraudolenta penalmente rilevante attraverso la manipolazione dell’informazione che veicoliamo insieme al nostro prodotto.
Si tratta principalmente di etichettatura e di etichetta, ma non solo.
Perché l’informazione alimentare riguarda le informazioni concernenti un alimento messe a disposizione del consumatore finale mediante l’etichetta, ma anche attraverso altri materiali di accompagnamento o qualunque altro mezzo, compresi gli strumenti della tecnologia moderna o la comunicazione verbale (art. 2, comma 2, lett. a, Reg. UE n. 1169/2011).
Questo vuol dire che, in tema di frode nell’esercizio del commercio, nella nozione di “dichiarazione” di cui all’art. 515 c.p. rientrano anche le indicazioni circa origine, provenienza, qualità o quantità della merce contenute in un eventuale messaggio pubblicitario che abbia preceduto la materiale offerta in vendita della stessa, essendo tale pubblicità pure idonea a trarre in inganno l’acquirente (per un approfondimento, si cita Cassazione Penale, Sez. III, sentenza n. 27105/2008 – fattispecie di vendita di carni che, in messaggi pubblicitari pubblicati su un quotidiano a tiratura nazionale, si affermavano provenire tutte, contrariamente al vero, da bovini allevati in Italia).
Come a dire, in altre parole, che il messaggio pubblicitario fraudolento, laddove non superato dalla chiara esplicitazione, al momento della vendita, delle diverse caratteristiche della merce venduta (circa l’origine, la qualità, ecc.), integra la successiva (fraudolenta) proposta di vendita.
Motivo per cui si rende necessario, all’interno del complesso aziendale, attenzionare e organizzare con rigore non unicamente i processi di confezionamento, imballaggio ed etichettatura del prodotto, ma tutte le attività di comunicazione alimentare rivolte al mercato. Che sia ormai tempo di promuovere trasparenza e correttezza delle informazioni fornite a vere leve pubblicitarie?