In caso di esercizio dell’azione penale per fatti costituenti delitto non colposo, categoria in cui rientrano a pieno titolo le frodi agroalimentari, sotto il profilo tributario scatta, quale sanzione indiretta, il regime della indeducibilità dei cosiddetti costi-reato. Ciò anche qualora il procedimento penale si concluda con una pronuncia di proscioglimento per prescrizione dell’illecito penale.
di Teresa Gentilini e Damiano Domenico Manzari.
Indice articolo
- Regime di indeducibilità dei costi-reato
- Cosa può fare il contribuente: indicazioni dell’Agenzia delle Entrate
- Applicazione pratica: collaborazione e obblighi di comunicazione
1. Regime di indeducibilità dei costi-reato
Quando pensiamo alla frode agroalimentare, raramente immaginiamo conseguenze diverse da quelle derivanti dal procedimento penale, sede ove verrà accertata o negata la responsabilità dell’OSA, o dell’impresa alimentare imputata del relativo illecito amministrativo ai sensi del D. Lgs. n. 231/2001.
Se la contestazione dell’attività illecita si inserisce in un rapporto B2B (ad esempio, nell’ambito di una fornitura che abbiamo effettuato verso altro soggetto della filiera), oltre al procedimento penale possiamo rappresentarci anche il rischio degli effetti civilistici che potrebbero derivare dalla nullità o dalla risoluzione del rapporto contrattuale col nostro partner commerciale.
Difficilmente, però, ci poniamo il problema delle conseguenze tributarie a cui potremmo andare incontro.
Avete letto bene: conseguenze tributarie.
Perché, per l’attività penalmente rilevante di natura dolosa, la legge prevede una sorta di sanzione indiretta di tipo fiscale.
Di che sanzione indiretta si tratta?
Dell’indeducibilità dei costi e delle spese relativi ai beni o alle prestazioni di servizio che siano stati direttamente utilizzati per il compimento del reato.
Mi riferisco, in particolare, al regime di indeducibilità dei cosiddetti costi-reato, introdotto dalla Legge finanziaria per il 2003 all’art. 14, comma 4-bis, della Legge n. 537/1993, come modificato dall’art. 8, commi 1, 2 e 3 del Decreto Legge n. 16/2012, convertito con modificazioni nella Legge 26 aprile 2012, n. 44.
La previsione normativa dispone che nella determinazione dei redditi ai fini IRPEF e IRES, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo, per il quale il Pubblico Ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, per il quale il Giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio.
È sufficiente, dunque, l’assunzione della qualifica di imputato di un delitto non colposo per far scattare l’indeducibilità dei costi e delle spese strumentalmente legati alla realizzazione del fatto reato.
In questo caso, l’Amministrazione Finanziaria procede:
- alla espunzione dalla contabilità ufficiale dell’impresa di tutti i costi e le spese direttamente riconducibili alla condotta delittuosa;
- alla rideterminazione del reddito d’impresa;
- alla contestazione, nei confronti dell’impresa, della violazione di cui all’art. 1 (dichiarazione infedele), comma 2 del D. Lgs. n. 471/97 (Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, a norma dell’articolo 3, comma 133, lettera q), della legge 23 dicembre 1996, n. 662) che prevede l’applicazione di una sanzione amministrativa dal 90% al 180% della maggiore imposta determinata, aumentata degli interessi.
L’indeducibilità presuppone la sussistenza di un rapporto diretto tra il bene e/o il servizio acquisito ed il reato.
Pertanto, l’Amministrazione Finanziaria, nella rideterminazione del reddito – oltre ad evidenziare le ragioni giuridiche e gli elementi di fatto sui quali si fonda il regime della indeducibilità – dovrà adeguatamente argomentare la pretesa tributaria, mediante la meticolosa e puntuale individuazione dei fattori produttivi acquisiti ed utilizzati (ancorché in maniera non esclusiva) per il compimento del reato.
Il Fisco dovrà, altresì, fornire puntuali indicazioni anche del procedimento penale, nel contesto del quale, ad esempio, il Pubblico Ministero abbia esercitato l’azione penale nei confronti del contribuente sottoposto ad accertamento, oltre che descrivere esaustivamente le motivazioni in base alle quali i costi e le spese siano stati ritenuti direttamente collegati alla condotta antigiuridica di natura non colposa.
Il regime opera anche per la determinazione del valore della produzione netta ai fini IRAP (art. 8, comma 3, D. L. 16/2012).
E in caso di assoluzione in sede penale?
Il contribuente ha diritto al rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione dei componenti negativi, oltre alla restituzione degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate pagate.
Occorre, però, che la sentenza assolutoria penale diventi definitiva e che la stessa non sia fondata sulla sussistenza della prescrizione del delitto (causa di estinzione del reato prevista all’art. 157 c.p.).
In altri termini, se il procedimento penale si chiude per prescrizione del reato, permane l’indeducibilità dei costi e non si ha diritto ad alcun rimborso. Per evitare che la prescrizione cristallizzi anche l’indeducibilità dei costi a svantaggio del contribuente-reo, quest’ultimo – qualora ritenga di poter far riconoscere in giudizio la sua innocenza – ha facoltà di rinunciare alla prescrizione e di chiedere al giudice una pronuncia nel merito. Qualora la sentenza avrà natura assolutoria, egli potrà chiedere il rimborso di quanto versato.
Ad abundantiam, giova altresì evidenziare che il citato regime giuridico tributario di sfavore è stato sottoposto, nel giugno del 2009, al rigoroso vaglio della Corte Costituzionale da parte della Commissione Tributaria di Terni.
Con Ordinanza del 3 marzo 2011 (ud. 08.02.2011) n. 73 (Gazz. Uff. 9 marzo 2011, n. 11, 1ª Serie speciale) la Corte Costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale del comma 4-bis dell’art. 14, aggiunto dal comma 8 dell’art. 2 della L. 27.12.2002, n. 289 sollevate dalla Commissione tributaria territoriale, in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, e 53 della Costituzione.
2. Cosa può fare il contribuente: indicazioni dell’Agenzia delle Entrate
Vi è, a questo punto, da chiedersi cosa possa fare il contribuente (privato e/o impresa), imputato del delitto non colposo, per evitare di incorrere in sanzioni – nella “migliore” delle ipotesi, per la fattispecie di dichiarazione infedele di cui all’art. 1, comma 2, del D. Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471.
Con Circolare n. 32/E del 03.08.2012, l’Agenzia delle Entrate ha individuato la facoltà per il contribuente, successivamente all’esercizio dell’azione penale, di procedere ad una variazione in aumento del reddito imponibile in relazione ai costi-reato, al fine di evitare l’attività di accertamento nei suoi confronti.
In tal senso, il contribuente nei cui confronti non siano ancora iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento potrebbe presentare, in relazione alla dichiarazione in cui ha dedotto i costi, una dichiarazione integrativa ai sensi dell’articolo 2, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322 contenente le necessarie variazioni in aumento, corrispondenti ai costi (asseritamente) indebitamente dedotti.
Qualora la dichiarazione integrativa, effettuata prima dell’avvio dell’attività di controllo fiscale, venga presentata nei termini di cui all’articolo 13, comma 1, lettera b) del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, il contribuente otterrebbe la riduzione della sanzione ad 1/8 del minimo, avvalendosi dell’istituto del ravvedimento operoso.
3. Applicazione pratica: collaborazione e obblighi di informazione
La circostanza che il Fisco possa contestare l’indeducibilità dei costi-reato solo qualora sia noto l’esercizio dell’azione penale, pone, all’evidenza, “un problema di formale conoscenza della stessa da parte dell’Amministrazione Finanziaria”.
Proprio per questo motivo, al fine di realizzare un effettivo coordinamento tra l’Autorità giudiziaria e l’Amministrazione finanziaria, è prevista la necessità che le Direzioni Regionali provvedano alla definizione di idonee forme di collaborazione con le Procure dei territori di competenza, al fine di coordinare e raccordare l’operato con quello degli organi giurisdizionali.
Non dimentichiamo, infine, che ai sensi dell’art. 36 (comunicazione di violazioni tributarie) del D.P.R. n. 600/73, i soggetti pubblici incaricati istituzionalmente di svolgere attività ispettive o di vigilanza nonché gli organi giurisdizionali, requirenti e giudicanti, penali, civili e amministrativi e, previa autorizzazione, gli organi di polizia giudiziaria che, a causa o nell’esercizio delle loro funzioni, vengano a conoscenza di fatti che possono configurarsi come violazioni tributarie, hanno l’obbligo di comunicarli direttamente ovvero, ove previste, secondo le modalità stabilite da leggi o norme regolamentari per l’inoltro della denuncia penale, al Comando della Guardia di Finanza competente in relazione al luogo di rilevazione degli stessi, fornendo l’eventuale documentazione atta a comprovarli.
Un sincero ringraziamento al Ten. Col. Damiano Domenico MANZARI, in forza presso il Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Lecco, che mi ha trasmesso la conoscenza dei temi trattati, scritto insieme a me e sottoposto a revisione il presente articolo.