2-Etichettatura

Indicazione di origine in etichetta: il fantasma del nesso comprovato tra qualità e origine dell’alimento

La Corte di Giustizia UE si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale proposto dal Consiglio di Stato francese nel caso Lactalis: gli Stati membri possono adottare disposizioni che impongano ulteriori indicazioni in etichetta (quali l’indicazione del Paese d’origine o del luogo di provenienza dell’alimento), ma a condizione che esista «un nesso comprovato tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza», da un lato, ed «elementi a prova del fatto che la maggior parte dei consumatori attribuisce un valore significativo alla fornitura di tali informazioni», dall’altro. Le disposizioni italiane rispettano questi requisiti? Vediamo l’esempio del recente obbligo di indicazione dell’origine delle carni suine trasformate.

Indice articolo

  1. Principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia UE nel caso Lactalis
  2. Il decreto italiano sull’origine delle carni suine trasformate
  3. Conclusioni

1. Principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia UE nel caso Lactalis

Risale allo scorso 1 ottobre 2020 la sentenza con cui la Corte di Giustizia UE ha deciso in ordine alle questioni pregiudiziali sollevate dal giudice francese nel caso Lactalis (causa C-485/18).

Ci eravamo già occupati di questa vicenda quando erano state pubblicate le conclusioni rassegnate dall’Avvocato Generale Gerard Hogan; la sentenza era indubbiamente attesa, dato il tenore delle questioni sollevate, in grado di mettere in discussione l’intervento normativo nazionale in materia di etichettatura complementare adottato non solamente dal Governo francese convenuto nella controversia, ma dagli Stati membri in generale, Italia compresa, attraverso l’emanazione, nel corso degli anni, di disposizioni interne analoghe.

I Giudici di Lussemburgo hanno riconosciuto, anzitutto, che gli Stati membri possono adottare disposizioni che impongano ulteriori indicazioni obbligatorie da inserire in etichetta, quali il Paese d’origine o il luogo di provenienza di taluni alimenti, sulla base dell’articolo 39 del Regolamento UE 1169/2011.

Oltre al perseguimento di obiettivi ben precisi, occorre, tuttavia, la presenza di due requisiti, ossia l’esistenza di «un nesso comprovato tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza», da un lato, e gli «elementi a prova del fatto che la maggior parte dei consumatori attribuisce un valore significativo alla fornitura di tali informazioni», dall’altro.

Queste due condizioni devono esistere -ed essere considerate- distintamente.

Infatti, dice la Corte, “il legislatore dell’Unione ha inteso separare nettamente i due requisiti a cui ha subordinato l’adozione di ulteriori disposizioni nazionali, assegnando a ciascuno di essi un obiettivo distinto nonché un ruolo diverso” : il requisito del “nesso comprovato” deve esistere a monte e va dimostrato in termini oggettivi, mentre quello relativo alla percezione condivisa dalla maggioranza dei consumatori circa la significatività di tale informazione può intervenire solo a valle e in modo accessorio e complementare rispetto al primo.  

Di conseguenza, occorre esaminare tali due elementi in successione, verificando, in un primo tempo e in ogni caso, se esista o meno un nesso comprovato tra talune qualità dei prodotti alimentari di cui trattasi in una determinata fattispecie e la loro origine o provenienza; in un secondo tempo, e solo nell’ipotesi in cui sia dimostrata l’esistenza di un tale nesso, se siano stati forniti elementi a prova del fatto che la maggior parte dei consumatori attribuisce un valore significativo alla fornitura di tali informazioni.

Del resto, è così che propriamente recita il dettato dell’art. 39, par. 2.

Per non parlare del fatto che le pratiche leali di informazione vietano di suggerire, attraverso le informazioni sugli alimenti, che questi ultimi possiedano caratteristiche particolari, quando, in realtà, altri alimenti analoghi possiedano le stesse caratteristiche (art. 7).

Questo vuol dire che una disposizione nazionale non può rendere obbligatoria l’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza di un alimento soltanto sulla base dell’associazione soggettiva che la maggior parte dei consumatori può stabilire tra detta origine o provenienza e talune qualità dell’alimento.

E attenzione, perché le «qualità» alle quali si riferisce l’art. 39, par. 2, del Reg. n. 1169/2011 sono esclusivamente quelle che presentano un «nesso comprovato» con l’origine o la provenienza degli alimenti che le possiedono; “ne consegue che la nozione di «qualità» cui si riferisce tale disposizione rinvia esclusivamente alle qualità che distinguono gli alimenti che le possiedono dagli alimenti simili che, avendo una diversa origine o provenienza, non le possiedono”.

2. Il decreto italiano sull’origine delle carni suine trasformate

Proviamo a verificare se i principi di diritto enunciati dalla Corte di Giustizia vengano rispettati nell’attività normativa statale. Prendiamo ad esempio il recente Decreto interministeriale italiano del 06.08.2020, che introduce, a partire dal prossimo 15 novembre 2020, l’indicazione obbligatoria in etichetta dell’origine delle carni suine trasformate.

Il decreto è stato emanato in attuazione dell’art. 4 della legge n. 4/2011, come modificato dall’art. 3-bis del D.L. n. 135/2018, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 12/2019, che prevede, ai sensi dell’art. 39, par. 2, del Regolamento UE sull’informazione alimentare, “la realizzazione di appositi studi diretti a individuare la presenza di un nesso comprovato tra talune qualità degli alimenti e la relativa provenienza nonché a valutare in quale misura sia percepita come significativa l’indicazione relativa al luogo di provenienza e quando la sua omissione sia riconosciuta ingannevole. I risultati delle consultazioni effettuate e degli studi eseguiti sono resi pubblici e trasmessi alla Commissione europea congiuntamente alla notifica del decreto”.

Dunque, realizzazione di appositi studi in ordine a entrambi i requisiti richiesti dalla normativa UE: non basta dimostrare che i consumatori italiani attribuiscano importanza alla conoscenza dell’origine del prodotto, ma occorre preliminarmente dimostrare, dati oggettivi alla mano, che l’origine conferisce a quel particolare alimento talune qualità peculiari.

Nello Schema di decreto trasmesso a suo tempo alla competente Commissione parlamentare per il parere, contenente anche la Relazione illustrativa, si menzionano i risultati della consultazione pubblica condotta da ISMEA sulla percezione da parte dei consumatori del valore attribuito all’informazione sull’origine (i risultati dell’indagine demoscopica sono allegati – vedi “allegato 2”) e si menzionano, altresì, elementi che comproverebbero il nesso tra l’origine e la qualità dei prodotti a base di carne suina trasformata, che sarebbero confluiti in appositi studi ISMEA risalenti al giugno 2019, contenuti in un “allegato 1”.

Peccato che quell’allegato 1, sia pur richiamato, non risulta allegato a quella Relazione e pare non sia altrimenti rinvenibile in rete.

Alla luce dei principi di diritto ribaditi dalla Corte di Giustizia, l’esistenza del nesso comprovato tra qualità e origine del prodotto alimentare non potrebbe farsi discendere solo dagli elementi soggettivi ricavabili dall’allegato 2.

3. Conclusioni

Che pasticcio se l’allegato 1 menzionato nello Schema di decreto fosse andato perso.

Chissà se almeno alla Commissione europea quell’allegato 1 sia stato notificato.

Se l’allegato 1 fosse un allegato fantasma, potrebbe derivarne l’illegittimità del decreto interministeriale perché contrario a disposizione di legge (art. 4, comma 3-bis, legge n. 4/2011, come modificato dal D.L. n. 135/2018) e già al diritto UE (inosservanza dell’art. 117, comma primo, Cost. in relazione all’art. 39, par. 2, del Regolamento UE n. 1169/2011).

L’applicazione pratica darà la risposta.

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